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Intervista a Emilio Caravatti

Questa lunga intervista, risalente al lontano 2005, era stata sviluppata da Tommaso per il portale web under-construction.org da lui fondato e curato assieme all’amico e collega Andrea Pinna. Il portale si occupava di sostenibilità, progettazione nei Paesi in Via di Sviluppo. Il progetto dopo alcuni anni purtroppo è stato abbandonato per la difficoltà pratica ed economica nel sostenere un portale molto articolato. Ripubblicare questo pezzo permette di ricordare quei tempi di grandi ideali ed entusiasmo. Entusiasmo che comunque ha permesso all’architetto Caravatti di ottenere grandi soddisfazioni professionali e che per noi rappresenta un chiarissimo punto di riferimento professionale ed umano.

Qualche parola…

Emilio Caravatti è silenziosamente travolgente, al primo approccio appare come svariati giovani architetti nero vestiti ma rapidamente si comprende che la sua è un’altra stoffa. Dal costante rapporto fatto di telefonate, qualche incontro e svariate mail emergono ogni volta nuovi particolari, prendono forma storie di viaggi in vespa da Monza al Mali, di padri aviatori e fratelli senza frontiere. Nei diari che ci consegna leggiamo la passione del fare un mestiere in maniera differente. I rapporti umani la, stima reciproca, la fiducia e la consapevolezza dell’essere tutti fraternamente uniti emergono quali valori imprescindibili del suo modo di intendere il fare architettura. Un fare concreto, nel quale ci si impolvera i vestiti e le mani impastano la terra; un operare antico in cui le tracce sul terreno generano architetture quasi fossero i grandi baobab sotto i quali si ritrovano le comunità dell’Africa Occidentale, nella quale Caravatti opera.

In questo primo dossier, che innaugura under-construction seguiamo l’opera dell’architetto Caravatti in Mali e Burkina Faso. Abbiamo provato, per quanto ci è stato possibile, a capire le ragioni che lo hanno spinto ad arrivare così lontano da Monza, e a dedicarsi a questo tipo di tematiche sociali. Lanciamo inoltre uno sguardo sul contesto nel quale opera cercando di fornire qualche dato e qualche percorso di ricerca agli utenti. Un’ampia parte del dossier indaga la forma e le tecnologie usate nei progetti di Emilio Caravatti allo scopo di capire metodologie costruttive e le loro necessità d’essere.

Un viaggio che continerà attraverso un’apposita photo gallery (che potrete trovare nella sezione specifica di questo sito) dedicata allo studio Caravatti e che sarà periodicamente aggiornata con nuovi materiali che arriveranno dall’Africa passando per Monza.

Buona lettura quindi.

Tommaso Michieli

CONTESTO E PROBLEMATICHE

TOM: Bene, banale ma necessaria…. come ci arriva un architetto di Monza in Africa e perchè? Quali sono state le tue difficoltà iniziali a calarti in un contesto così lontano e diverso?

Emilio Caravatti:ll percorso, mentale e fisico è stato lungo e naturale al tempo stesso. Le immagini mi arrivano da + di trentanni attraverso i viaggi di mio padre che con un piccolo aereo da turismo vola ed ha girato il pianeta intero; attraverso conoscenze e coincidenze arrivò in Mali e dal 1977 due volte all’anno riempie l’aereo di ogni cosa e porta aiuti di ogni tipo. Sempre ho sentito forte il richiamo x questi racconti e quelle dia che ogni tanto qua e la proiettava. Una cosa che senti dentro e dici . . forse è rischiosa, meglio studiarci bene ed arrivare preparati; così infatti non è stato (la preparazione) ma ho tenuto il pericolo lontano finche ho potuto, poi, quattro anni fa, mi sono deciso, e ho passato il deserto. Mi sono sentito subito a casa, quasi conoscessi già molto. Questo mi ha molto facilitato.

TOM: Bambini-gioco-sorrisi-istruzione, adulti-sudore-sorrisi-equità queste due cose mi colpiscono vedendo le tue immagini e leggendo le tue righe. Intravedo un’Africa che anela a svilupparsi attraverso l’educazione dei più giovani e il rispetto della persona umana. Il tuo percorso si snoda tra carceri, scuole e chiese: centri di aggregazione sociale che manifestano le necessità del Continente Africano. Cosa senti di dirci a tal proposito?

EC:Impari molto vivendo le differenze che trovi lì. Il rispetto della persona,dei vecchi,il valore della famiglia, sono la base della loro ricchezza; da li allora il saluto per le strade, le persone che sorridono sempre, l’amicizia. C’è in loro un grande desiderio di crescita, di conoscenza. Bambini dappertutto, come desiderio di futuro credo, lì vedi ovunque. Può non esserci da mangiare, un lavoro che non esiste, ma sempre si pensa a fare figli, a vedere in loro un domani. Non so come dire, ma la tranquillità del loro essere,del loro pensare a volte sbalordisce . Vedi, quando arrivo li, mi pare davvero di veder finalmente delle persone, degli uomini, dei bambini,delle donne che non si preoccupano di apparire se non per quelli che sono. Come scoprire finalmente la vera nostra natura. Forse volo un poco,ma le sensazioni spesso sono quelle; trovi il vero, non il credibile, difficile fingere da quelle parti. Non hai maschera la, o meglio, non hanno maschera. Certo, contaminazioni e problemi portano poi a conseguenze diverse, ma non credo che telefonini o internet possano così facilmente sorpassare una stretta di mano o un correrti addosso per salutarti dopo qualche mese che non ci si vede.

TOM: La tua attività si svolge tra Mali e Burkina Faso, il contesto economico e sociale nei due paesi credo sia molto diverso. Puoi tracciarci un profilo, secondo le tue esperienze, che ne metta in risalto le differenze?

EC:Stiamo parlando di due tra le ultime nazioni, al mondo, come reddito pro-capite e come indici di povertà in assoluto. difficile tra loro tracciare delle differenze. In Mali l’apertura democratica in seguito alla rivoluzione studentesca del 1991 attualmente inizia a dare strani segnali di instabilità; proprio di recente, il mese scorso solo a causa di una partita persa dalla nazionale di calcio a Bamako mi è capitato di assistere per le strade a gravi incidenti e devastazioni nel centro della città (ci sono stati tre morti) segno di un clima di insoddisfazione generale che sta in qualche modo facendosi sentire. Non era mai capitato nulla del genere, in una nazione davvero tranquilla come questa, ma la recessione forte degli ultimi due tre anni sta portando a malcontenti che lasciano qualche preoccupazione. L’economia si basa ancora come in Burkina sull’andamento della stagione delle pioggie, popolazioni legate esclusivamente a quanto la terra può offrire e produrre. In Burkina Faso invece la democrazia è ”assicurata” da un governo accentratore e molto poco democratico. Se in Mali comunque una democrazia è per certi versi visibile, a Ouagadougou il governo di Blaise Campaorè non brilla certo per apertura ed equità. In vero però è forse un gioco di equilibrio politico che riesce a garantire maggiori approvvigionamenti e legami con gli ex dominatori coloniali favorendo in qualche modo l’arrivo di aiuti e sovvenzioni. La recente guerra civile in Costa d’avorio ha comunque determinato grosse difficoltà, bloccando e quasi azzerando in alcune zone le attività. Durante la costruzione del centro doposcuola a Bobò abbiamo ad esempio dovuto sospendere per qualche mese i lavori perché non c’erano materiali per proseguire perché arrivavano in gran parte da li (il ferro per le strutture ad esempio . . )

TOM: Passando oltre e cercando di non concentrarci solo sull’aspetto drammatico, il Mali è noto per essere uno dei Pesi africani con maggiore ricchezza culturale ed artistica. Sono famose le architetture in terra cruda, la pittura locale e anche le espressioni musicali. E’ ancora viva questa sensibilità? Esiste un qualche fermento culturale giovanile?

EC: conosco molto poco le regioni dove non ho operato, quindi non ho mai visto i posti più noti forse, i paesi dogon, le grandi moschee in terra cruda di Mopti e Djennè sono lì ancora ad aspettare la vespa rossa, ma posso dire che anche in ambiti meno frequentati e famosi la musica, la danza non mancano. Ogni occasione è buona per fare festa e quindi per loro danzare; durante la notte e il giorno la musica in sottofondo ti accompagna sempre. Certo Salif Keita o Ali Farka Tourè sono personalità musicali note in tutta l’africa e non solo, così come gli oggetti della cultura dogon, ma mi è difficile vedere l’africa nelle statuette in legno intarsiate. Ritrovo molto di più l’espressione artistica in quello che noti per la strada, dai giochi in filo di ferro dei bambini ai colori dei vestiti delle donne, nell’eleganza dei loro portamenti, fino ai cartelloni pubblicitari, per le strade, nelle incredibili insegne dei parrucchieri di Bobodioulasso.
Ho conosciuto ed ho lavorato con giovani artisti locali, come Alphonse Traorè che lavora sui segni e simboli della cultura bambarà (suoi sono i disegni per la biblioteca) e che per mangiare comunque disegna insegne per negozi, oppure Salim Djallò, un bravissimo coreografo che con i bambini di Katì ha messo in piedi uno spettacolo interpretando con molta profondità attimi di vita quotidiana dei bambini di Bamako ai semafori delle strade.

ATTORI IN GIOCO

TOM: Il tuo committente principale sono le Suore Missionarie della Regina Pacis, parlaci della loro opera sul territorio e sul come sono state capaci di improvvisarsi imprenditrici edili.

EC:Che dire. Sono sicuramente di parte, ma sono persone davvero speciali. Politicamente poco corretto forse parlare di suore nel nostro ambito (non so perché, ma mi pare poco ci sia sulle più note riviste . . .) devo ammettere di avere trovato entusiasmi ed energie che davvero ci sognamo. Non mi è mai capitato di trovare in ambito sociale, persone così motivate, ma al tempo stesso aperte e semplici. Dopo due giorni dal nostro primo incontro a Bamako stavamo già parlando del come realizzare. Amore a prima vista.
Sono molto impegnate a livello locale sia nell’aiuto alla comunità, che nei villaggi in savana ,e nei centri di scolarizzazione femminili che gestiscono. Sono poche (in Burkina cinque ed in Mali solo tre) ma mi picerebbe descrivere il cortile della loro casa per far capire quanto la popolazione locale le abbia accolte e le stimi. È un continuo andare e venire di gente, di piccoli e grandi problemi da risolvere di attività da creare, supportare o portare avanti. Per questi nostri progetti si sono in effetti dovute anche improvvisare direttrici dei lavori senza forse aver mai messo piede in un cantiere; ma questo in Africa è normale, è normale adattarsi alle necessità. Suor Angela così come suor Laura in Burkina Faso ha portato avanti tutto il progetto della biblioteca, dal reperimento dei fondi al controllo dei costi, dal portare disegni e particolari fino a controllare la “regola d’arte” delle lavorazioni, o reperire la manovalanza per il cantiere. Entrambe Le consiglierei ad imprese importanti . . . se mai fossero disponibili . . . !

TOM: Come si muove lo studio Caravatti nell’affrontare questo tipo d’incarichi? Quanti siete a lavorare? Che tipo di materiali preparate? Fate dei sopralluoghi per comprendere le aree d’intervetno o vi appoggiate ad architetti locali? La direzione dei lavori come la gestite? Il modo di interfacciarvi dal punto di vista della trasmissione e comprensione degli elaborati grafici? Raccontaci un po’ appunto il vostro modo di operare. E Infine secondo te quanto del tuo approccio in Africa può essere riportato in un contesto come quello occidentale e italiano?

EC:Il lavoro viene svolto come un normale incarico di studio. Normale in quanto considerato come gli altri. Come un concorso o un incarico qui in Italia. Non esiste distinzione di importanza o di preferenza. Certo le differenze sono molte a livello organizzativo e di impostazione progettuale. I vincoli sono diversi, ma quello che voglio dire è che non esiste un lavoro in africa che in quanto là può avere maggiore o minore considerazione. La professionalità ed il rigore necessario per opere in Italia si devono utilizzare anche in questi ambiti. Con Matteo, il fratello architetto che vive e lavora a Barcellona, collaboriamo su questi lavori. A seconda delle esigenze di progetto cerchiamo di programmare il viaggio, concentrando ogni volta visite al cantiere, sopralluoghi su nuove possibili aree e contatti. Riusciamo alternandoci a coprire le principali necessità di direzione lavori, il resto lo affidiamo ai disegni che via internet riusciamo ad inviare. Una curiosità ed un vincolo è che spesso le tavole di progetto debbono essere stampate al massimo in formato A4 (non ho mai visto una stampante più grande in africa . . .), così da costringere la lavorazione e spesso il progetto ad una necessaria semplificazione e chiarezza; un vincolo ma forse una fortuna.
In studio attraverso immagini e descrizioni cerco di trasportare il contesto e gli spunti di progetto. Il lavoro è sviluppato insieme agli altri con gli strumenti e i mezzi che utilizziamo di solito, modelli in cartone, schizzi, prove materiali etc . . una metodologia di lavoro uguale ai lavori qui in Italia.
Questo forse è un punto importante. Non vedo differenze a livello di metodo o di approccio al tema di progetto. Se in Italia il contesto ed i vincoli possono essere rappresentati da preesistenze storiche o da normative e distanze dai confini, lo stesso è in africa quando cerchiamo di conservare un albero o che tipo di materiale scegliere per la muratura. Nel primo progetto della biblioteca in Mali, pur nella difficoltà di uno strano terreno dalla forma triangolare, abbiamo cercato di conservare e utilizzare le numerose piante di mango presenti: la cosa strana fu che lo sforzo del progetto di mantenere e valorizzare da noi forse scontato non fu capito dalle maestranze locali che ritenevano solo una difficoltà il costruire a fianco di alberi così grandi e comunque così numerosi. Non si erano mai posti il problema della conservazione, avendo talmente tante piante di mango non si curavano certo di tre o quattro alberi in più senza pensare al valore che queste potevano rappresentare. Al primo sopralluogo in cantiere trovai infatti un mango forse centenario già decapitato a metà, dovetti insistere, e non poco, perché lo conservassero e ci si costruisse a fianco e non sopra. È vivo ancora, e sta benissimo.

TOM: E’ evidente dalle immagini che tutte le tue opere sono state realizzate con manodopera locale, il che ovviamente è una questione imprescindibile. per un approccio etico al progetto Tuttavia relazionarsi con questo tipo di manodopera e soprattuto indirizzarla verso un’architettura contemporanea com’è stato? Ci sono state difficoltà, resistenze, scetticismo?

EC:Racconto spesso l’episodio di un dettaglio di progetto disegnato in millimetri e sul cantiere trasformato in centimetri così che il 3 divenne 30 e il 6 60. Un episodio che mi fece riflettere sul valore nostro (di malefici architetti) per il “nostro” progetto spesso considerato in quanto solo tale e della reale necessità invece di ciò che si va realizzando e in seguito utilizzando. Questo per dire che è vero, difficoltà di comprensione, di linguaggio, non solo in senso stretto, ma anche architettonico ve ne sono molte, ma se si riesce ad arrivare al problema, al cosa si vuole e deve costruire, al perché siamo lì a fare una scuola e per chi, le incomprensioni spariscono e l’intento diventa comune tra tutte le forze in campo. Nell’ultimo lavoro della scuola a N’tceyani, un villaggio nella savana a 45 chilometri di pista da Bamako, costruita con l’appoggio di un impresa locale, ma soprattutto in collaborazione con gli abitanti del villaggio, appena ultimata la struttura in ferro di copertura gli abitanti del villaggio dovevano costruire i muri in terra ma ad un certo punto si bloccarono perchè non si ritenevano in grado di proseguire il lavoro. C’è voluta un’opera di convincimento del capo villaggio non da poco per dimostrare il contrario e che la costruzione che avevano davanti agli occhi funzionava allo stesso modo delle poche scuole che potevano avere visto nei villaggi a qualche decina di chilometri da li. Ora sono tutti li a lavorare, ma ad un certo punto davvero la situazione era sembrata difficile. Lo strano fu che non erano scettici sul progetto, anzi, ma che non lo ritenevano alla loro portata, adeguato alle loro possibilità di costruzione. La cosa bella poi fu invece vederli riprendere a lavorare con entusiasmo forse maggiore e per me aver intuito che il progetto un poco a loro era riuscito ad appartenere, ad essere compreso, che non era così slegato dalla loro realtà, dalla loro cultura, ma che semplicemente così ancora non si era fatto. una soddisfazione,forte.

TOM: Quanto è importante in questi lavori la componente della “partecipazione”? Le suore sono solo finanziatrici del progetto? La manodopera è solo realizzatrice fattiva?

EC:1) Con il progetto della scuola abbiamo cercato di aprire una nuova fase di intervento che coinvolge più direttamente gli utenti. Abbiamo effettuato alcune scelte di progetto proprio per cercare un coinvolgimento maggiore della popolazione; così ad esempio il periodo di costruzione, è coinciso con la stagione dove minore è il lavoro nei campi, oppure la scelta di iniziare l’anno scolastico ancor prima del cantiere e quindi la necessità di autocostruzione di una scuola provvisoria in paglia, sono tutte scelte stabilite in accordo con gli abitanti del villaggio

2) In realtà ne sono le coordinatrici. Di fatto i fondi per i primi due lavori più importanti [la ristrutturazione della cappella oratoria è stata da loro finanziata ndr] sono parte sovvenzioni private e parte finanziate con stanziamenti di fondi della C.E.I. [Comunità Episcopale Italiana]. L’attività delle suore è quella di tramite delle necessità locali, sulla base delle quale cerchiamo di valutare le possibilità e la realizzabilità delle proposte.

3) Al momento direi di si, siamo però, spero, solo in fase iniziale, lo sviluppo della nostra attività sta cercando di tendere alla realizzazione di progetti avviati e condotti da associazioni locali, generati da interazioni con progetti presenti già sul territorio. Diciamo che ancora il terreno è molto aperto verso queste prospettive e l’esperienza appena di recente condotta da Matteo in Burkina faso con ASFE [Arquitectos Sin Fronteras Espana] ci potrà essere molto di aiuto a riguardo. Il suo lavoro di quattro mesi a Bobodioulasso infatti ha riguardato la progettazione di locali a servizio di scuole nei villaggi costruiti in collaborazione con un’associazione locale di volontariato che si occupa di sviluppo di progetti sul tema dell’educazione; un progetto esistente a livello locale supportato poi come coordinamento, progettazione e direzione lavori da parte di tecnici di ASFE.

TECNICA E FORMA

TOM: Innanzitutto un chiarimento. Non ci troviamo di fronte ad edifici vernacolari, al contrario materiali tradizionali sono uniti a sistemi costruttivi ben più evoluti. Ritieni che questo sia un reale pensiero di sostenibilità, per il quale solo attraverso l’ibridazione tecnologica si può avere vero sviluppo?

EC: Chiarisco anch’io. Non voglio passare per l’esperto in grado di dare risolutive risposte. Vorrei si vedesse il nostro approccio come una ricerca appena cominciata, per la quale l’esperienza la si va cercando piuttosto che già proporla. Nei primi lavori ci siamo trovati a dover dar risposte immediate ad urgenti necessità; la risposta quindi ha trovato gli spazi che le nostre conoscenze ed i luoghi ci potevano fornire. Così nel centro sociale e al cappella oratoria sono blocchi in laterite e per la biblioteca mattoni in cemento. Abbiamo adattato la tecnologia presente sul luogo al programma di progetto, senza preconcetti. La sostenibilità di un opera ovviamente è legata al contesto in cui è inserita; costruire in una città di 700.000 abitanti come Bobodioulasso un centro sociale in terracruda mi sembrerebbe forse più fuoriluogo che non adottare tecnologie costruttive più consolidate.
L’esempio della scuola in costruzione nel villaggio di N’tyeani mi pare possa meglio far comprendere il ragionamento. Sul luogo trovi terra, mani, sole, savana poca acqua, e tecniche di costruzione muraria che comunque necessitano nel breve tempo sempre un grande lavoro di manutenzione a causa delle piogge, poche ma violente, quando arrivano. L’idea allora è stata quella di dare maggiore resistenza a questi elementi attraverso un apporto iniziale esterno che ci consentisse di mantenere il più a lungo possibile i muri; così nasce il progetto di costruire fondazioni con piccoli getti di cemento e una struttura di copertura con il minor ferro possibile portata sul posto con due viaggi in camion. Solo questo. Un tetto prima del muro. Ferro e terra insieme. La possibilità di mantenere le mura della scuola più a lungo e la necessità di costruirle con materiali locali.

TOM: Qualche accenno alle forme. Mi pare che dai primi lavori piuttosto composti stai passando a forme più libere come ad esempio nel gioco dei volumi della cattedrale di Bamako o ancora di più nel sistema incurvato della scuola in costruzione. Da dove nasce questa spinta sempre più organica o perlomeno plastica?

EC: Il progetto della cattedrale rappresenta in qualche modo un’evoluzione nel metodo e nella rappresentazione formale dell’idea. Il tema forse più che il luogo ha dato modo di lavorare molto di più a livello teorico, sul concetto più che sulla forma. La rappresentazione di un’idea di cammino, di percorso faticoso di ricerca, di instabilità in riferimento al tema del sacro hanno contribuito molto al risultato formale finale.
Non direi sia una voluta o cercata spinta verso l’organico o il plastico, ma la volontà di riconoscere alcuni elementi, vuoi concettuali come nel progetto per la cattedrale, vuoi formali come nella scuola la ripresa dei muri curvi di alcuni granai presenti nell’architettura dei villaggi.

TOM: Una tematica chiave in Africa è sicuramente quella legata al clima. Come sono concepiti bioclimaticamente gli edifici in particolare per quanto riguarda il sistema di protezione dal grande caldo? Ci sono sistemi integrati negli edifici per il recupero di un bene molto prezioso quali le acque meteoriche? Se si come questa necessità ha influito sulle scelte formali?

EC: Osservavo in questi giorni immagini di alcuni villaggi dogon e consideravamo insieme a Matteo (mio fratello ndr) che mai nell’africa che abbiamo conosciuto fin ora ci è capitato di vedere qualche sistema di raccolta e recupero delle acque meteoriche. Può sembrare strano ma forse in zone come queste è talmente rara ed instabile la possibilità di pioggia che non diventa nemmeno conveniente creare sistemi e cisterne di raccolta per la poca acqua che nel corso di un anno può cadere. Molto più sentito e analizzato è invece il problema del caldo. Quasi impensabile è costruire senza qualche sistema passivo di aerazione. Di solito si costruisce un doppio tetto che consente flussi di aria più fresca nell’intercapedine per un maggior benessere all’interno. Così è tra la tole ed i solai sia del centro che della biblioteca, mentre a N’tyeani, per la scuola, abbiamo costruito un falso tetto in legno sotto la copertura, aerato con bucature sui fronti.
Molto importante è l’orientamento delle aperture e la creazione di zone d’ombra a protezione dei muri. Il porticato di N’tyeani, ad esempio, consente ai muri di non essere mai direttamente esposti sul fronte sud alla luce solare diretta e crea una zona di stare esterna alla classe probabilmente (non è stato ancora inaugurato . . .) molto utilizzata dai ragazzi anche in orari extra scolastici.

TOM: Su alcuni dei tuoi edifici appaiono una sorta di grandi murales. Cosa sono e cosa rappresentano per la cultura locale? Sono sistemi ideogrammatici o rappresentano qualche cosa di meramente artistico?

EC: Alphonse Traorè è un artista di Kati, la cittadina a trenta km da Bamako dove sorge la biblioteca, che da tempo lavora sui simboli della tradizione culturale bambarà, l’etnia originaria di questa parte del Mali. La sua ricerca ha radici lontane, nel recupero di alcuni segni e simbologie ad oggi quasi scomparsi. Nel suo lavoro sulle superfici della biblioteca ha sviluppato temi legati allo studio, all’apprendimento, al sapere. Ci è parso importante sostenere e porre in evidenza queste sue opere utilizzandole come filo conduttore dei percorsi negli spazi di progetto. L’ingresso con una parete alta più di cinque metri è un segno riconoscibile a distanza, quasi un’insegna diventata poi il logo di tutto il complesso e dell’associazione ad esso collegata; la cle du savoir.

RISPOSTA

TOM: E’ chiaramente visibile il fatto che il tuo lavoro abbia una risposta positiva, nella committenza, nei fruitori e anche nell’amministrazione. Il fatto ad esempio di essere risultto vincitore del concorso per la cattedrale di Bamako come lo leggi?

EC: Potrei rispondere con una amara battuta, ma evito. Come sempre, e ahimè l’Africa non smentisce, i concorsi d’architettura sono una questione ancora da comprendere. A tutt’oggi, al di là del premio non ricevuto, non sono ancora riuscito a reperire un documento più o meno ufficiale, un foglio scritto, che ci confermi il primo premio. Ma questioni burocratiche e riconoscimenti a parte, si tratta di un’opera dalle dimensioni talmente smisurate rispetto al luogo ed alla reale concreta necessità che molte remore morali e di progetto mi sono fatto prima di arrivare alla consegna. Diciamo che la cattedrale rappresenta comunque un asterisco, un caso a parte rispetto ai programmi ed alle intenzioni di operare in questi luoghi. Le soddisfazioni arrivano invece dal vedere oltre all’apprezzamento per queste realizzazioni anche e soprattutto dalle lavagne del centro in burkina sempre piene di esercizi di ogni materia, dalla frequenza e dal diverso utilizzo della corte con spettacoli,riunioni e manifestazioni di ogni genere, insomma dal sapere di avere potuto contribuire al realizzarsi di desideri e necessità da molto tempo in attesa. E’ chiaro che la spinta a proseguire arriva da qui, dove non esiste altra ricompensa,dove forse davvero non può esserci migliore soddisfazione.

TOM: Non ci hai detto dei tuoi colleghi architetti locali… Hai avuto un rapporto con questi? Ti pare che possano nascere delle sinergie? Che effetto hanno avuto i tuoi lavori sulla cultura architettonica presente sul territorio?

EC: In Mali gli architetti iscritti all’ordine sono in totale 74. Non so quanto questo dato possa dare l’idea, ma credo sia importante per comprendere quanto difficile possa essere trovare sinergie o partnership a livello locale. Per il concorso della cattedrale ci siamo associati ad una delle due uniche donne architetto: Aishata Djallo Tourè, una giovane laureata all’università di Kiev, in Ucraina. È stato per il concorso una pura forma associativa dettata dalle regole del bando e quindi al momento lei ci rappresenta solo legalmente. Devo dire che in un ambito così ristretto numericamente molte sono le invidie ed i giochi di potere, da quel poco che sono riuscito a capire dopo la vicenda del concorso. Chi ha il lavoro se lo tiene e ancora non mi è capitato di vedere qualche cosa che va un poco oltre lavori di carattere speculativo/commerciale. Ma troppo poco conosco per poter rispondere in maniera esaustiva. Come dire tutto il mondo è paese anche nel Mali. Dove ci sono fondi ed interessi economici anche in così forti ristrettezze, c’è poco spazio per altri valori. Aichata ad esempio ha pochissimo lavoro e si guadagna quel poco per mantenere lo studio partecipando a qualche concorso locale ad inviti, ma ad oggi ancora non ha costruito nulla. Difficile anche lì per un giovane architetto.

TOM: So che non sono necessarie troppe parole ma sono sufficienti i tuoi racconti e soprattutto le fotografie che hai scattato ma dicci due parole su come i bambini hanno preso possesso dei tuoi edifici, sul come li hanno fatti propri…

EC: Per parlare di bambini in Africa non trovo mai parole. Mi viene l’immagine dei bambini di N’tyeani che sotto il sole, aiutano portando con le mani la malta agli uomini che stanno costruendo i muri della loro futura scuola.
Mi sembra già un bel prendere possesso. . .

TOM: Credi che il tuo lavoro in Africa possa essere un segnale e un punto di riferimento per coloro i quali abbiano il desiderio di seguire in parte il tuo esempio? Un punto di riferimento non architettionico (lo dico solo per toglierti dall’eventuale imbarazzo) ma princpalmente sul modo di agire e rapportarsi con un contesto così lontano dal nostro. Hai qualceh consiglio da dare a chi appunto volesse muoversi in questa direzione?

EC: Rimanere a cercare. In italia o in Mali non fa alcuna differenza. Credo molto nel ruolo sociale dell’architettura. Non penso sia necessario verificarlo fino in Burkina faso. L’importante è riuscire a trovare un propria, anche precaria coerenza professionale, lavorativa, etica. Già,etica . . . ma qui forse il discorso si fa intricato, lungo e ancora da scoprire . . . il bello è allora qui

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